Molto recentemente hanno circolato due documenti emblematici per definire lo stato della ricerca in Italia. Non hanno avuto l’eco mediatica che meritavano e quindi riprendiamoli in esame.
Si tratta di:
- il resoconto dell’audizione tenuta il 13 dicembre 2022 dalla Ministra dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini, presso la Commissione Parlamentare Attività Produttive;
- l’appello “Un futuro per la ricerca” inviato dai più importanti scienziati italiani a tutti i politici italiani poco prima delle elezioni del 25 settembre scorso.
Cominciamo dal primo. La ministra ha presentato le linee programmatiche del suo Ministero nel campo della Ricerca Applicata. Il mio giudizio generale è che vi siano parecchie cose condivisibili… ma…
Cominciamo con la parte condivisibile (senza preoccuparci di virgolettare): c’è la consapevolezza che l’Italia ha un ritardo cronico in materia di promozione dell’innovazione/diffusione delle tecnologie; c’è consapevolezza del fatto che il ritardo si supera solo puntando sulla conoscenza. Un’economia come quella italiana, che è la seconda manifattura d’Europa, può essere capace di creare maggior valore aggiunto in ogni suo stadio produttivo (nei beni e nei servizi) solo se dispone di conoscenze d’avanguardia. Altrimenti ristagna.
E parlando di queste conoscenze d’avanguardia, viene preso come esempio di gestione approssimata, lo strumento del Dottorato di ricerca. Nel nostro Paese solo una persona su mille ha completato il dottorato di ricerca. In Germania sono il doppio.
Ma non basta. Da noi, ogni anno il 20% dei dottori di ricerca si trasferisce all’estero con una inaccettabile dispersione delle competenze e del potenziale innovativo dell’Italia. Se ne deduce, di conseguenza, la indispensabilità di un investimento generale nella ricerca e nell’innovazione.
Certamente è anche necessario creare una rete che faciliti il trasferimento tecnologico dalla ricerca pubblica all’ impresa, che sono i due protagonisti dell’innovazione. (Ma essendo la ricerca pubblica in affanno, c’è poco da trasferire, mi permetto di notare). In questo quadro si è inserito il PNRR, che rappresenta un’iniezione formidabile di risorse e che è strutturato in una serie di interventi (che prenderemo in esame in futuro). La parte finale del discorso della Ministra è dedicata alla “Nuova geografia della ricerca applicata: hub e distretti industriali” e a molte considerazioni su eventuali sviluppi possibili dopo il 2026 anche facendo riferimento al Piano Quinquennale per la Ricerca messo a punto da alcuni scienziati italiani con il cosiddetto Tavolo Amaldi nella primavera del 2022.
In conclusione, e a spanne, possiamo accettare la lettura non negativa della Ministra sulla situazione attuale della ricerca. Essenzialmente per merito del PNRR.
E adesso arriviamo al “…ma” espresso all’inizio.
Ma… il PNRR finisce nel 2026. Ebbene per quello che succederà dopo tale anno, nel resoconto dell’audizione sono presenti solo considerazioni generali. E noi, invece, abbiamo già visto nel precedente articolo che nella ricerca per arrivare a maturazione c’è bisogno di una programmazione a lungo termine, il che significa essenzialmente ricerca pubblica. Non bastano analisi ragionevoli e buone intenzioni. Occorrono anche investimenti strutturali. Nel bilancio 2023 il Governo ha scelto altre priorità giudicandole molto più pressanti. È una valutazione politica che non va discussa in questa sede. Ma la politica è fatta anche di una chiara indicazione della volontà futura: basterebbero anche poche risorse come inizio. E quindi cosa si sarebbe potuto fare? La risposta forse la troviamo proprio in una frase dell’audizione. Questa volta virgolettiamo: “La ricerca ci consente di aprire porte sul futuro e di farlo attraverso la visione dei nostri scienziati e l’azione delle nostre imprese.”
Perciò, perché non prendere in considerazione proprio la visione dei nostri scienziati?
E qui entra in scena il secondo documento, cioè la richiesta che un lungo elenco di scienziati italiani, tra i più illustri internazionalmente, hanno mandato a tutti i politici italiani in vista delle elezioni del 25 settembre: una richiesta bipartisan per chiunque fosse arrivato al governo, dal titolo esplicito, “Un futuro alla ricerca”. Guidati dal Premio Nobel Giorgio Parisi, gli scienziati (e ci sono praticamente tutti i nomi che contano) chiedevano al futuro governo, qualunque esso fosse, di fare proprio il «Piano quinquennale per la ricerca pubblica» messo a punto dal Tavolo Amaldi.
Nel Piano, si richiedeva di rendere strutturale l’investimento straordinario consentito dal PNRR per poter guardare con tranquillità a dopo il 2026. «I fondi del Pnrr hanno dato al nostro Paese una grande opportunità – scrivono gli scienziati – Ma questi progetti non riguardano che alcuni temi di ricerca e, comunque, una volta terminati i fondi del Pnrr cosa succederà? Che fine faranno i progetti iniziati? Come saranno finanziate, nel frattempo e successivamente, le ricerche non considerate dal Pnrr?». Il piano dettaglia l’impatto del PNRR sulla ricerca italiana e cerca di mitigare gli effetti di alcune scelte.
«Suddividendo i 19,2 miliardi stanziati nel Pnrr per ricerca e sviluppo – scrivono – è stata fatta una precisa scelta: alle imprese va il 77% delle risorse e alla ricerca pubblica è destinato il 23%».
Il Piano propone di aumentare il bilancio del Ministero dell’Università e della Ricerca, in modo che la quota di ricerca e sviluppo sul Pil rimanga al di sopra dello 0,7% , raggiunto grazie al PNRR, anche dopo il 2026. L’Italia si avvicinerebbe alla Francia, che destina lo 0,8% del Pil alla ricerca, e alla Germania, già oltre l’1,1%. La spesa necessaria fino al 2028 sarebbe di circa 10 miliardi.
Senza questi interventi già nel 2028 la quota del PIL destinata alla ricerca scenderebbe allo 0,55%. Ovviamente gli scienziati dettagliano cifre, argomenti, tempi e riforme necessarie. A metà dicembre 2022, la richiesta è stata reiterata dal Nobel Parisi e dalla Presidente del CNR Carrozza direttamente nell’aula del Senato nell’ambito delle celebrazioni in onore di Rita Levi Montalcini. La ministra Bernini si è affrettata a dichiarare la più ampia disponibilità del Governo.
Però, in conclusione, incrociando il testo dell’Audizione, il testo del Piano quinquennale degli scienziati e il testo della Finanziaria appena sfornata, se ne deduce che la nostra politica non ha completamente metabolizzato la visione necessaria ad arrivare a dopo il PNRR con una Ricerca degna di un Paese del G7. Ovviamente la colpa non è solo dell’attuale governo. Ma anche di una certa mentalità stratificata.
E allora?
Per tentare di modificare il pensiero potremmo ricorrere alle filosofie orientali. Potremmo far recitare a tutti i politici e decisori, uno specifico mantra: più cultura uguale a più competenza, uguale a più innovazione, uguale a più competitività, uguale a più benessere. Con tutti i distinguo che volete e senza sproloqui sul valore della conoscenza in sé.
Un importante ministro di parecchi governi fa diceva perfidamente ironico: “Con la cultura non si mangia.”
I politici di oggi forse si sono convinti che almeno un primo piatto si riesca a ottenerlo.
Bisogna convincerli che si può arrivare ad un pasto completo. Anche il caffè. Anche l’ammazzacaffè.